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domenica 21 giugno 2015

Frammenti | #impossiblethings

 (Wife Portrait - Zdzisław Beksiński)

Mi son fottuto il cervello!
E il cuore, la pancia, la vita
l'integrità.
Deflagro

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martedì 16 giugno 2015

La sottilissima arte di innamorarsi

Soprattutto a colei che vibra
e fa vibrare

Non so quando precisamente decisi di attraversare la vita con un unico ideale: vivere un perenne stato di sogno. Provare lo sforzo sovrumano di mutare un sogno in realtà tangibile è un orribile suicidio. Lo impari facendone le spese, mai e poi mai la vita potrebbe eguagliare il tuo sforzo creativo nel creare situazioni incantevoli. Il mio cuore è cartaccia, è spazzatura riciclata, è un fiore di carta ritagliato con cura e caduto in una pozza di fango: dissolto. Dell'ignoto ora son vorace. Imparo ad amare, non come uomo, ma come poeta. Amo le immagini che la realtà alla mente ispira, amo l'intangibile mio pensiero che orna di ghirlande il paesaggio visto dai miei occhi. I colori in me risuonano come arpe. Amo finché il tocco del reale non sgretola i muri altissimi delle illusioni. Amo senza parlare, senza addentrarmi in forme, senza sfiorare. E delle tante muse io m'innamoro, ed esse son mie fintanto che io le adoro. Esse non sanno, né sapranno. M'innamoro, d'ogni fanciulla che ha gli occhi in un libro, che ha un vento fantastico che scorre sotto le sue ciglia. Il loro sguardo di fiaba mi rimanda in altri tempi che vissi e che dimenticai. Secoli fa, mai più li vidi. Non vivono: esistono in quel fugace scorcio di esistenza che ci ha portato ad incrociarci. E m'innamoro d'ogni folta chioma, d'ogni viso che io non sia costretto a guardare nelle sue storture, nelle sue bruttezze: sono io il pittore dei loro tratti e assai più angelica è la mente mia che la natura. Camminate dunque, due, cinque, dieci mentri innanzi al mio cuore e i vostri volti avranno i tratti delle Dee. E di ciò che è fuori moda io amo il frugale sentirsi fuori da ogni tempo, passato indefinito, perché solo fuori dalla linea del presente potremo amarci indefinitivamente: in qualsiasi luogo noi sapremo danzeremo. Di colei che è ancora pura di cuore io m'immamoro, perché suo è il rossore che accende le guance e non conosce del mondo la corruzione; dove lei lascia cadere il passo sorgono margherite e tupilani. E di coloro che san pizzicare le corde dell'anima con un canto, un violino, una chitarra, un basso, di coloro che han sogni in musica e la realtà è di semplice orpello. Di costoro e tant'altre che evocano sogni privi di realtà. Perché il sogno ha un ritmo incalzante e la realtà tempi morti; il sogno ha una drammaturgia originale e la realtà si trascina in forme trite; perché il sogno ha sempre una colonna sonora e la realtà rumore; perché il sogno è in ogni luogo, perché il sogno è potenzialmente infinito e parla il linguaggio indefinito delle emozioni. Non v'è linguaggio alcuno e azzerate sono le incomprensioni. Io sogno. 

E infine, c'è colei la quale al sogno da consistenza, lo incarna, lo dipinge su una tela composta dalle singole cellule del corpo: ella è attrice e le più soavi fantasie possono cogliermi di fronte ad un corpo che sa sbocciare nuovo, trasformarsi, percorrer vite, materializzare la poesia, la massa e l'aria, veicolo delle più fulgide emozioni; tu, Sole del mio sistema incentrato sui sogni, il mio pianeta desertico ha bisogno di abbeverarsi alla tua fonte di luce. Di fronte a te è massimo il mio ardore, "che non finisca con la commedia!" mi ripeto, "che non finisca con la commedia!". Ma tu sei già lontana evanescenza poetica, già te stessa nei camerini e resti viva nei miei occhi solo spettatori, indelebile miraggio in attesa di una nuova replica. E se tu tendessi la mano al di là della quarta parete, la mia, cavalleresca, con un guanto t'accarezzerebbe e con le labbra un bacio appena accennerei senza violarti. Nessuno vuol questo sogno e va allora, sii vita terrena, finita, mentr'io inventerò per noi la nostra eternità. Tu ignara mi ricambierai con un saluto, ma sei un semplice tutto e non lo sai. T'amero da una platea. Se amerai, amerò. Se riderai, riderò. Se morrai metterò il lutto. T'amerò. Da una platea. Io son semplice carta, stracciami.

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sabato 6 giugno 2015

Riflessi letterari: solitudine e sogno da "Il grande Gatsby"

  Eppure questo atteggiamento non ci è per nuovo. E per quanti di voi la fantasia domina la realtà riempendola di decorazioni? Ciò rappresenta la delizia ed il supplizio di ogni sognatori: vivere grandi fasti immaginari, morire soli in un castello reale. Riportiamo questi tre estratti tratti da Il Grande Gatsby (recensione), un romanzo del 1925 dello scrittore statunitense F.S. Fritzgerald. Esistono diverse versioni cinematografiche (la più recente delle quali con Leonardo Di Caprio e Carey Mulligan), nonché un allestimento teatrale e persino un'opera musicale.




  "Quando mi avvicinai per salutare vidi che l'espressione scontata era ritornata sul viso di Gatsby, come se fosse stato attraversato da un lieve dubbio sulla sua attuale felicità. Quasi cinque anni! Ci dovevano essere stati momenti, perfino in quel pomeriggio, in cui Daisy non era stata all'altezza dei suoi sogni - non per colpa sua, ma per la colossale vitalità della sua illusione. Era andato oltre lei, oltre tutto. Si era gettato in quella storia con una passione creativa, accrescendola continuamente, ornandola con tutte le piume più colorate trovate sulla sua strada. Non c'è fuoco o gelo che possa sfidare ciò che un uomo può immagazzinare nella sua anima" (...)

(...) "Era James Gatz quello che stava bighellondando sulla spiaggia quel pomeriggio con un vecchio maglione verde e dei pantaloni di tela, ma era già Jay Gatsby quello cheprese in prestito una barca a remi, accostò al Tuolomee e informò Cody che poteva essere sorpreso dal vento e affondare in mezz'ora.
   Immagino che avesse avuto il nome pronto da tempo, perfino allora. I suoi genitori erano contadini incapaci e falliti - la sua immaginazione non li aveva mai accettati come genitori. La verità è che Jay Gatsby di West Egg, Long Island, scaturiva dalla sua platonica concezione di se stesso. Era un un figlio di dio - una frase che, se significava qualcosa, significava proprio questo - e doveva occuparsi degli affari del Padre, servire una vasta, volgare e falsa bellezza. Perciò inventò questa storia di Jay Gatsby che giusto un ragazzino di diciassette anni poteva inventare e vi restò fedele fino alla fine." (...)

 (...) "Ma il suo cuore era in costante e turbolenta rivolta. Le più grottesche e fantastiche ambizioni lo braccavano la notte nel letto. Il suo cervello tesseva un universo di ineffabile lusso mentre l'orologio ticchettava sul lavabo e la luna bagnava di luce i suoi vestiti ammucchiati sul pavimento. Ogni notte accresceva quest'intreccio di fantasie finché la sonnolenza non si chiudeva con un abbraccio incurante su qualche vivida scena. Per qualche tempo questi sogni ad occhi aperti gli procurarono uno sfogo per la sua immaginazione; erano un soddisfacente indizio dell'irrealtù della realtà, una promessa che la saldezza del mondo era di sicuro fondata sulle ali di una fata."




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giovedì 28 maggio 2015

La via del ritorno...

Sulla via del ritorno, memorie asfaltate; e riflessi. I sensi acuti catturano l'ambiente, il peggio che possa capitare alla tua anima. Una fluttuazione solitaria e tutto è nostalgia. In ogni sguardo, in ogni smorfia, in ogni respiro. E tutto è poesia, tutto è devastazione emotiva. Quell'uomo pieno di tic, con quelle movenze bizzarre, macchiettistiche. Guardi non visto, assente, momentaneamente al di sopra di tutto. Un povero attore costretto a rivedere i suoi canoni: "troppo teatrale". E tutto intorno invece è più teatrale della teatralità stessa. La vita è innaturale. La vita è una sensazionale divagazione di anime, di storture, di malformazioni mentali, di strade che franano dando a corpi e volti espressioni fuori dal normale. E tu, tu citi un ricordo, rovesciato da chissà quale cassetto. Si contorce l'anima di fronte a due paia di labbra che si sfiorano; ne osservi bellezza e orrore insieme; tu solo. Brutto essere osservatori estremi, captare ogni singolo getto d'umanità, assorbire in sé fiumi di vita, amalgamarla, sezionarla e archiviarla ordinatamente, può sempre far comodo un ricordo. Sono attimi, puoi farne ciò che vuoi, puoi renderli infinitamente grandi, il resto sarebbe poco interessante: ordinaria amministrazione. Un pezzo qua, un pezzo di là, pezzetti di realtà che compongono un puzzle che a suo modo produce una musica. Ed è forte, perché a ciò che manca rimedia la fantasia, più vivida e forte di qualunque scontata realtà. La realtà fa schifo, uno schiaffo alla magia. Se potessimo vivere solo nei sogni? Realtà, sempre realtà, cruda, bastarda, penosa riproduzione di gesti. L'arte, la letteratura, i film ci hanno impestato l'anima e noi sognamo. E se la realtà non diventa un sogno, il nostro compito è inventare sogni, come il sognatore dostoevskiano, per il quale un minuto può bastare a riempire la vita: se vi fosse stato un giorno invece? Una settimana? Un mese? Un anno? Mio caro, tanta realtà non basterà a raggiungere la grandezza di pochi secondi di sogno. Un ubriacone riempe la strada di berci immondi, ciondola e per lui è tutta colpa dell'Ecuador. Un tale su una panchina lo chiama, ha un cartoccio. "E' per sopravvivenza", dice. "Mangia, devi dare benzina allo stomaco sennò impazzisci". Questa è il massimo d'umanità che mi è capitato di raccattare tra i mostri quotidiani, dalle forme stropicciate delle loro costruzioni. Nevrosi. Quasi piangi a sentirli parlare, a vedere quei due avanzi di vita condividere un pasto di fortuna, fraternamente. E' un devasto questo sogno che mi assale, questo sogno chiamato esistenza. A me toccò d'aprire varchi nell'aria con la mente ed essa sempre mi fu ostacolo alla fratellanza. Io non vivo, io non esisto, io personaggio immaginario. Tenerezza. Brutalità. Se solo ci fosse un'anima che sappia riprodurre i più alti slanci del mio fantasioso cuore. Compagni di volo. Ma è solo aria, solo respiro che si perde. E amo e odio tutto e tutti.
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lunedì 18 maggio 2015

L'ultimo volo di Dean

Facce funerarie, abitudinarie, inerziali. La quotidianità smorta che ti passa davanti senza neanche accorgersi della tua esistenza, scossa da un segnale sonoro tra una fermata di metro e l'altra. Ogni giorno un déjà vu che si ripete, incessante, un ronzio d'assordante silenzio che logora e scava una galleria dentro di te. Questa esistenza monotona che talvolta sbandieriamo al grido di "Vita!". Il dono più grande, il più grande brivido, la vera emozione. Ma è così davvero? Quei volti dicono il contrario mentre timbrano il cartellino del disavanzo emozionale, mentre passano una carta per lenire l'animo e dare un senso al sudore, tutto in ordine: il posto fisso, la casa, tanti oggetti e una confortevole comodità. Non nei vostri occhi, non un'emozione, non un'adrenalinica scintilla che accenda un passante avido e curioso. Eppure subito pronti a salire in cattedra, con lo scettro della morale teso verso il cielo a gridare che "l'emozione più grande è la vita". Bugiardi! Emozione è ben lontana dall'essere una parola a voi familiare. Da quello stesso cielo un uomo scendeva a gran velocità, un uomo danzava sul filo dell'incoscienza, dell'incomprensibile ricerca di un fremito, una scommessa: si vince per ora o si perde per sempre. Giocare con se stessi, con la propria vita al fine di tagliare il traguardo dell'adrenalina, avere affrontato il pericolo ed essere sopravvissuti, aver visto il mondo da prospettive inaccessibili alla maggior parte degli umani.

E mentre si aprono e chiudono le porte di quei serpentoni meccacini che fagocitano gente, sfogliamo il giornale e leggiamo di Dean Potter provando ammirazione, rispetto, forse anche invidia per avere avuto il coraggio di provare delle sensazioni che un luna park non riuscirà neanche lontamente ad imitare (ma che tuttavia forniscono un surrogato commerciale, accessibile e sicuro all'adrenalina autentica); e ovunque tu sia, Dean Potter, ti ringraziamo perché ci insegni una cosa fondamentale nella vita: fare ciò che ci dà emozione e piacere, fare ciò che voglioamo e amiamo. Ce ne dimentichiamo spesso e diventiamo schiavi dell'abitudine, della noia, del lavoro, della confortevole mediocrità delle nostre vite in putrefazione. Insegnaci a volare Dean, lungo i costoni di roccia dei nostri sogni più proibitivi; aiutaci a sconfiggere il tabù della parola "morte" e insegnaci come sposare l'incertezza; a capire che non ci serverà a niente vivere a lungo se non ci assumiamo il rischio di cadere in digrazia; che la strada verso la pienezza di se stessi è come un filo teso tra due canyon.
M.d.S.



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