mercoledì 29 dicembre 2010

7 14 21 28, tana per Rezza!

un grazie a Francesca
che mi ha fatto un bellissimo regalo


Se sei fortunato qualcuno un giorno ti dirà: vai a vedere Antonio Rezza. La prima volta che ho sentito parlare di Antonio Rezza è stato lo scorso anno, quando un intero articolo gli era stato dedicato su TrovaRoma. Campeggiava ad ornamento una foto del volto plastico del Rezza infilato in una tela elastica; l'immagine mi mise addosso molta curiosità. Da allora ho sempre serbato la volontà di andare a vedere quell'uomo curioso che tanto m'aveva destato interesse. A distanza di un anno ho potuto leggere qualcosa su di lui e, soprattutto, vedere i cortometraggi presenti in rete che svelano molto del personaggio. Inevitabilmente quel pulpito di curiosità s'è mutato in smania di voler assistere ad un suo spettacolo dal vivo. Incredibile come personaggi di tale comicità e stazza scenica non vivano che di passa parola. Raramente mi è capitato di leggere di Rezza sui maggiori quotidiani e, perfino ora che si avvicina l'ultimo dell'anno e i giornali abbondano di proposte per il 31 a teatro, Rezza viene dimenticato (o volutamente messo da parte).

Ieri finalmente ho potuto soddisfare la mia curiosità. Ero al Teatro Vascello, parte del fiero pubblico di 7 14 21 28, quarto spettacolo dell'antologica Rezza-Mastrella. Tra il pubblico, composto per la maggior parte da giovani (ed è la prima volta che vedo una netta maggioranza giovanile), si vede anche Max Tortora. Lo spettacolo inizia, un uomo in tutina e a torso nudo si dondola su un'altalena, non parla, fa soltanto smorfie: tanto basta per far partire le prime risate tra il pubblico, tanto basta per capire il potenziale espressivo di Antonio Rezza. Il resto è un fluire bruciante di battute, situazioni, mutamenti, cambi d'espressione e di toni. È un vero vortice di energia che prende anche gli individui più freddi e li denuda dai loro atteggiamenti trattenuti. Imprendibile, si muove nel suo habitat (la scenografia della fedele Flavia Mastrella) come un ossesso funalbolo ed hai l'impressione che ti porterà fino al mattino seguente senza che tu possa rendertene conto. C'è da chiedersi dove finisca l'uomo di spettacolo e dove inizi la follia umana, ma lui è un uomo da palcoscenico e il palco, specialmente quello del Vascello, lo conosce in ogni millimetro. Sa aggrazziarsi i favori del pubblico, sa quando tacere e strappare risate con una semplice espressione facciale, sa improvvisare situazioni modellandosi alle reazioni del pubblico. E guai ad esser permalosi o religiosamente sensibili se non si vuol finire con l'essere oggetto preferito delle sue battute. Squilla un telefono, il nostro funambolo tace, il telefono smette di squillare: - stavo aspetta' che lo spegnevi! Scroscio d'applausi. Un one man show corrosivo, che alterna temi sensibili come il precariato, gli scandali sessuali o il disatro italiano e della sua politica, a scenette di raccordo ed esilaranti con giochi di parole imprevedibili. Inizi a capire perché non ne parlano: non risparmia niente e nessuno. Eppure, non è l'ironia ad personam a cui siamo abituati, Rezza prende il tutto e lo fa oggetto della sua polemica; senza far nomi, senza indicare colpevoli, perché non ne esistono e l'Italia è un fluire continuo in cui chi c'è oggi continua lo sfascio iniziato ieri. E ci scappa anche una bestemmia; lui è così, provocatore. Forse si può restare impressionati, si può gridare alla blasfemia, ma altro non è, il Teatro, che la rappresentazione della vita (e di bestemmiatori quotidiani) e Rezza il suo autorevole portavoce.
E un apprezzamento al "capriolo" Ivan Bellavista che preso dall'estasi rezziana quasi dimenticavo.

Alessandro Giova

7-14-21-28
Compagnia RezzaMastrella - Teatri 91 – Fondazione TPE
Regia di Antonio Rezza e Flavia Matrella
Interpreti: Antonio Rezza e Ivan Bellavista

al teatro Vascello fino al 2 gennaio
(speciale capodanno il 31 dicembre con cena a buffet, brindisi a mezzanotte e asta al buio)




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lunedì 27 dicembre 2010

Il più bello dei mari - Nazim Hikmet

(nell'immagine: Mare di nebbia di Friedrich)


Il piú bello dei mari
è quello che non navigammo.
Il piú bello dei nostri figli
non è ancora cresciuto.
I piú belli dei nostri giorni
non li abbiamo ancora vissuti.
E quello
che vorrei dirti di piú bello
non te l’ho ancora detto.

Nazim Hikmet
da Poesie d'amore


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sabato 25 dicembre 2010

Il culto del Sol Invictus ed il Natale.

Ci ho pensato un po' prima di pubblicarlo. Non capivo se la natura di questo post fosse o meno coincidente con l'essenza di questo blog. Poesia, arte, teatro e... cultura? Non sono forse tutte sorelle? Ciò che sto per proporvi non è certo un articolo di interesse artistico, ma certamente lo è dal punto di vista culturale. Credo in nessun modo di rovinare i contenuti di questo blog, si mantiene un certo distacco e le finalità sono soprattutto culturali. L'arte nasce dalla vita e dalla cultura: un uomo che ignori la vita e la cultura difficilmente potrà essere un artista perché significherebbe che tanti sono gli aspetti della propria esistenza che ignora. Allora mi sono deciso a pubblicarlo, convinto del fatto che non sono contenuti contraddittori e stonati, ma argomenti che si possono facilmente trovare sui libri di storia. E la parola libro, è una parola molto simpatica a questo blog.

http://thelightbringer.org/Resources/Images/sol-invictus-coin.jpg

Cosa festeggiamo davvero a Natale? Quello che oggi chiamiamo cristianamente Natale è una festa che esiste prima ancora della sua cristianizzazione: in origine fu il Dies Natalis Solis Invicti (Giorno di nascita del sole invitto). Questa festività, che cadeva proprio il 25 dicembre, era molto popolare tra i romani, anche se il rito del Sol Invictus ha origine in oriente. Cosa di non minor conto, la festività del Deus Sol Invictus è antecedente al Natale cristiano. La religione cristiana prese e cristianizzò questa festività facendola coincidere con la nascita di Cristo.

La precedente festività veniva celebrata qualche giorno dopo il solstizio d'inverno. Questo cade precisamente il 21 dicembre e tra il 22 e il 24 dicembre il sole sembra fermarsi in cielo. In questo periodo si ha la notte più lunga e il giorno più breve. Dopo questa lotta tra luce e tenebre , l'invitto o invincibile sole vince la propria battaglia: la luce sconfigge le tenebre e le giornate tornano a farsi lunghe. Era perciò una festa celebrativa della vittoria della luce direttamente collegata agli eventi astronomici: tanto più che si trovano varie festività similari in molte culture anche distanti tra loro. Ma cosa fece del Sol Invictus il Natale che oggi veneriamo come nascita di Gesù? La festa del Natale appare la prima volta sotto il regno di Costantino che istituzionalizzò per decreto i festeggiamenti della natività. La data fissata fu fatta coincidere con il Sol Invictus festeggiato dai pagani: questi dunque veneravano il Sole, tale festività cadeva il 25 dicembre e ciò avveniva prima che lo facessero i cristiani. La scelta della nascita di Gesù al 25 dicembre non fu altro che una scelta politica di far coincidere festività esistenti e festività "emergenti". Venne fortunatamente in soccorso dei cristiani l'editto di Teodosio che stabilì come unica religione di stato il cristianesimo. Il cristianesimo e il culto del Natale furono quindi culti imposti per decreto che andarono ad affiancarsi prima, e sostituirsi poi, ai precedenti festeggiamenti.
I due culti convissero ancora a lungo, ed anni dopo l'editto si leggono ancora le parole di Papa Leone I:

« È così tanto stimata questa religione del Sole che alcuni cristiani, prima di entrare nella Basilica di San Pietro in Vaticano, dopo aver salito la scalinata, si volgono verso il Sole e piegando la testa si inchinano in onore dell’astro fulgente. Siamo angosciati e ci addoloriamo molto per questo fatto che viene ripetuto per mentalità pagana. I cristiani devono astenersi da ogni apparenza di ossequio a questo culto degli dei. »

Sapete come andò a finire e cosa è giunto fino ai giorni nostri, ma la radice di questa festa e soprattutto il suo significato simbolico è rimasto invariato: il sole viene ad allungare le giornate e questo decreta la vittoria della luce sulle tenebre; la luce simbolicamente è nascita e vita, e così, da festa pagana del sole si è arrivati al Natale, festa cristiana della nascita del bambinello. Un fatto che, coincide da sempre con il Sol Invictus: allora buon Dies Natilis Solis Invicti a tutti.
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mercoledì 22 dicembre 2010

Poesia d'amore: Figlio Evitato di Alberto Bevilacqua

... per deliberato amarti ...
(nell'immagine: Nudo Blu di Picasso)

Si può amare un figlio mai avuto? Sì, ed è forse l'atto d'amore più grande che può esistere, perché è un atto consapevole del mondo circostante, è un rifiuto a concepire un'esistenza in un mondo ammuffito. Una prova d'amore contro l'egoismo del concepire per se stessi senza la valutazione del futuro del concepito. Felicità o dolore? Tormento o estasi? Cosa ci attende al momento della nostra nascita? La bilancia pende sempre un po' di più verso il baratro, le debolezze investono la forza e nel gioco delle probabilità l'infelicità ha un peso maggiore. È quando si diventa consapevoli del male del mondo, del tremendo supplizio dei vivi e del dolore cui si può andare incontro senza che si possa intervenire in alcun modo sulla rotta, è in quel momento che l'essere consapevole muta il suo amore in una scelta di non concepimento; un atto estremo d'amore che nutre col dolore dell'anima un figlio desiderato e mai avuto.
Figlio evitato è tra le più belle poesie di Bevilacqua, carica di passione, sentimento, dolore e amore. Una poesia dedicata a quel figlio che il poeta avrebbe voluto, che stringe a se come fosse di carne viva ma è solo l'essenza dei suoi rimpianti. Un desiderio che contrasta con l'amara constatazione d'una esistenza difficile, un duro vivere che viene risparmiato col più altruistico (e incompreso) atto d'amore. Non mi stupisce che questa poesia sia tra le più care al poeta stesso.


"Ci fu il piccolo enigma del Figlio evitato. Riflettevo che, nel bilancio negativo di molti aspetti della mia vita, il male di mia madre si era imposto. Con effetti radicali, alcuni devastanti. Dovevo riconoscerlo con rassegnata amarezza. Avevo pagato i conti che lei aveva lasciato in sospeso dopo essere stata dilapidata. In me si era fatto ossessivo il pensiero che non ero padre, traumi e contagi materni mi avevano impedito di esserlo. Ne era nata una poesia. Fra le mie che considero più belle. L'avevo dedicata al figlio che non avevo avuto... La tenevo sul mio tavolo di lavoro. Andavo a rileggerla per provarne una pietà tutta mia, per farmi del male. Un giorno, il foglio con la poesia scomparve... Ho ritrovato il foglio con la poesia tempo dopo, fra le pagine del Diario di mia madre."


FIGLIO EVITATO

... è nello sguardo chiaro
che potresti avere, è nel tuo guardarmi
furtivo, mentre sono distratto,
che mi capia di pensarti,
figlio
che non ho voluto per deliberato amarti

- potrebbero, se tu fossi esistito
essere le nostre vite
strette l'un l'altra
come piccole scimmie freddolose
al vento di questa sera
... ti avrei al mio fianco a camminare
in false distanze, scorci
di pensiero anch'esso di prospettico inganno
... o forse
mi potresti persino detestare

- avresti potuto
essere il mio orgoglio - dicono -
ma il mio orgoglio è l'averti risparmiato
l'ora della penombra
che affila la lama:
tu solo puoi dire
se fu errore e in che misura
non averti dato in pasto alla specie
... tu solo capire
che con la forza del vuoto ti ho piena,
mia statuina sacra,
mio geranio a cui do acqua
alla primora del giorno,
e giorno non c'è che mi dimentichi

... ci troveremo là dove si sta nel prima
e al prima si torna,
rispondimi: perché avrei dovuto
infliggerti devianze di una via
per un calvario breve?
- mi vedrai un giorno apparire,
mi lascerai, io spero,
il posto a sedere
accanto a te: ricordati, se puoi,
di toccarmi almeno le mani
nelle mie mani le piaghe
del non averti
mai accarezzato la fronte da vivo

... delle primavere, delle donne che avresti
potuto avere
è fatta questa vastità della mia solitudine;
mi vanto solo di questo:
non ho buttato nel pattume nessuno.


Alberto Bevilacqua

poesia presente nella silloge
interpretando in versi la detenzione di mia madre nell'ospedale psichiatrico di C.
e in Le Poesie - Oscar Mondadori -





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giovedì 16 dicembre 2010

Berlino


Ho visto candida
la neve stendere gelidi manti,
le strade scaldarsi di uomini
mille impronte fiammeggiare
al focolare del rosso vino.

Ho visto sguardi pazientare
davanti lunghe indecisioni,
comunione d'istinti e umanità.

Ho visto gente diversa
trovare un accordo comune
nel suono d'una parola,
dita intirizzite sulle mappe
indicare dubbie destinazioni.

Ho visto metropolitane,
fermate ognuna diversa
mutare il movimento in arte.

Ho visto gallerie illegali
tra umide decadenze
serbare autentici artisti
e pubbliche mostre fatue
ostentate presunzioni osannare.

Ho visto,
come dall'oppressione nascano vivi
colori e emozioni contro la spada.

Ho visto volti assassini
con mani tese ai morti
innalzare marmorei silenzi
ai solenni templi della Storia.

- Ho udito,
miei connazionali parlare
d'una Patria in fiamme
senza nostalgia
bevendo,
ho udito
infiniti strepiti lontani
sfiorar lievemente l'anima,
e sì distante m'è parsa
quella terra di fuochi
che solo sentivo il calpestio
di quattro passi nella neve.

Matteo Di Stefano
(nell'immagine un dipinto di
Alexander Rodin)
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martedì 7 dicembre 2010

L'Amleto attualizzato

Questo curioso riadattamento in chiave moderna del celebre monologo di Amleto l'ho trovato all'ultima pagina del secondo numero di To Be, rivista gratuita di recente formazione dedicata al teatro. La rivista, distribuita nei teatri e non so in quali altri posti, per ora è presente solo a Roma e nel Lazio. Il pezzo viene proposto come traduzione apocrifa e ci mostra un Amleto totalmente nuovo, contemporaneo; prendendo come spunto un personaggio che non citeremo, questa traduzione fornisce la prova concreta della spiccata universalità del linguaggio shakespeariano.


Entra Amleto

Essere o non essere, questo è il problema:
se sia più nobile soffrire, nell'intimo del proprio spirito,
le pietre e i dardi scagliati dall'ex alleato
e cofondatore, o imbracciar l'armi, invece,
contro i giudici nemici, e, combattendo contro i processi,
metter loro le fini. Sparire. Volare. Nient'altro.
E nell'antigua villa poter calmare
i dolorosi battiti del cuore, e le mille offese dei giornali
di cui fu vittima la mia carne: quest'è una conclusione
che desidero notevolmente. Sparire, giacere.
Dormire, magari trombare. È proprio qui l'ostacolo:
perché in quel partito d'amore,
tutti i sogni che possan sopraggiungere
quando noi ci siamo liberati dal tumulto,
dal viluppo di questa vita morale,
dovranno indurci a riflettere. È proprio questo scrupolo
a dare alla sventura una vita così lunga!
Perché, chi sarebbe capace di sopportare
le frustate dei secondi fini,
i torti dei giornali e delle televisioni, gli oltraggi dei travagli,
le sofferenze dell'amore partito e non corrisposto,
gli attacchi della legge,
l'insolenza dei giudici e lo scherno che il mio merito
riceve fin dai sodali, se potesse egli stesso
dare a se stesso la propria quietanza
con un nudo pugnale? Chi s'adatterebbe a portar cariche
di presidenze di consiglio o addirittura di repubblica,
a gèmere e sudare sotto il peso d'una vita grama,
se non fosse che la paura di sentenze prima della morte
- quel territorio inesplorato dal cui confine
non torna finora indietro nessun viaggiatore -confonde
e rende perplessa la volontà,
e ci persuade a sopportare le maldicenze
che già soffriamo piuttosto che accorrere verso altri mali
di cui non sappiamo nulla. A questo modo,
tutti ci rende vili la coscienza,
e l'incarnato natuale della risoluzione
è reso malsano dalla pallida tinta del cerone,
e imprese e leghe di gran conseguenza,
deviano purtroppo in mille correnti,
e perdono il nome d'azione. Vota, ora:
o bella Democrazia! Ninfa, nelle tue preghiere
intercedi per me, peccatore.
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domenica 5 dicembre 2010

Fiori di Dama

ad una dama addormentata

Ci bastava esser conoscenti,
conoscersi non era abbastanza.
Con le lettere interrogammo
cuore, testa, mezze strade,
tra gli uni e gli altri: sorrisi.
Era poca cosa la simpatia
dei Fiori di Dama colsi
sospirante i notturni petali.


Invitammo i cuori a rischiare,
dove crescevano ortiche
mani curarono margherite,
quanto piacevole fu sentire
il gusto nuovo dello scoprirsi.

Dicembre sui laghi volgemmo
regnando su isole di pace
ma sì pochi parvero i giorni
ch'esilio e fuga fu la Catalogna.
Con un sorriso da birbanti
voltati senza scendere
- per pigrizia o diletto -
guardammo quelle ripide scale:
come Fiori di Dama ovunque
sbocciarono le nostre notti
il tempo fece di noi un'alcova.

A scoter chiome gialle
e pungere disfatte lenzuola
con beffarde raffiche
l'opaco autunno venne,
e fu un qui dove quando
ad interrogare il giorno morente,
arrivò, senza avvertire,
piacevolmente inaspettato
il tempo delle brandine.

Matteo Di Stefano(nella foto il bacio di Munch)
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venerdì 3 dicembre 2010

Psicosi delle 4.48, ultimo atto della Kane al Teatro Lo Spazio



Solitamente sono l'ultimo a lasciare la sala. Mentre il pubblico abbandona la platea resto impietrito, fisso la scena ormai vuota e ricompongo i tasselli dello spettacolo lungo il sentiero delle emozioni suscitate. Questa volta non ero l'ultimo: una ragazza è rimasta seduta in prima fila piangendo. Piangeva a testa bassa, lasciando scivolare vigorosi singhiozzi. Ho provato grandi emozioni sedendo in teatro, ma mai così intense da rimanere interdetto in un mare di lacrime.

Agghiacciante. È questa la prima parola che mi viene in mente pensando a Psicosi delle 4 e 48 di Sarah Kane, autrice britannica morta suicida a 28 anni, in scena in questi giorni presso il Teatro Lo Spazio di Roma. Un testo, ultimo della Kane prima di suicidarsi, che ti prende direttamente allo stomaco; c'è, nelle sue crude parole, dolore, tutto il dolore esistenziale di un'artista complessa.
Monologo femminile che mette a dura prove le doti attoriali, è un tetro grido di dolore che si instaura nelle nostre viscere trascinando con sé tutto il malessere, la follia, la stretta morsa della solitudine, la consapevolezza causa prima dell'inadeguatezza nei confronti del mondo in cui si vive. Tempo, forse quello sbagliato: - forse sono nata nell'era sbagliata.
Un dolore che porta a progettare il suicidio, atto finale lucido e pensato, consapevole fine dei mali: e se non fosse la fine? Se lo chiedeva anche Amleto nel suo famoso monologo. Morte desiderata, cercata, eppure ripudiata: "Io non voglio morire, nessun suicida vuole morire".
È il peso della vita a bisbigliare nel vento la parola suicidio, è la solitudine, il macigno opprimente che valuta accettabile l'inaccettabile morte. Psicosi delle 4 e 48 è un sussurro che diviene grido poco a poco, lancinante richiesta d'aiuto, una richiesta di soccorso non alla medicina ma all'amore. "Mi caverei gli occhi, mi farei amputare gli arti, ma non rinucerei mai all'amore". Il grido raggiunge il suo massimo, si spegne, torna sussurro, diviene silenzio sotto un velo bianco.

L'allestimento è semplice. Walter Pagliaro costruisce un ambiente estremamente intimo: non viene usato il palco, l'azione si svolge ad altezza pubblico, come se fossimo noi quei medici che studiano da dietro uno specchio il decadimento del malato. Un letto al centro, coperte bianche, tre cuscini, il pubblico sistemato a ferro di cavallo intorno al luogo dell'azione. Una Micaela Esdra braccata dai nostri occhi, chiusa dentro un recinto di respiri. Non ci guarda, tiene gli occhi chiusi per molto tempo, finché lo spazio si fa angusto e guarda nelle nostre pupille come fossero i muri gommati di un manicomio. Il respiro si spezza e l'azione frenetica, scaccia fantasmi, risponde a se stessa, ci litiga, talvolta combatte fisicamente con qualcuno; ma non c'è nessuno, l'unica presenza è quella che proviene dalla sua testa, una voce che sembra non provenire da lei, ma dall'alto, un pensiero tonante anche per noi: lei è dinanzi a noi spossata, la sua voce scende dall'alto, ci prende alle spalle. Mi piace ciò che ha messo in piedi Pagliaro: con un testo del genere si è forse tentati di abbagliare il pubblico, stupire ricercando forme ad effetto. Invece lui opta per la semplicità rappresentativa per dare maggior forza alle parole. La sala era piccola, ma l'attrice usava il microfono. Non amando particolarmente l'uso del microfono a teatro, ne ero rimasto contrariato, in quanto sempre più mi convinco che si ricorre alla tecnica per sopperire alle mancanze degli attori. Mi ha spiegato il ragazzo alla regia della scelta voluta e pensata al fine di creare un effetto d'insieme, una voce che provenisse dal pensiero e non dalla bocca, che scendesse sul pubblico avvolgendolo e incrinando un po' quell'intimità. La Kane non parla al pubblico ma a se stessa e in questo la scelta è stata azzeccata e ben calibrata. Al di là delle proprie preferenze personali, è proprio quando le sensazioni del pubblico e la volontà del pubblico si incontrano che uno spettacolo può definirsi riuscito.

Buona interpretazione di Micaela Esdra, seppur le sue variazioni di tono spesso non sembravano pensate. Probabilmente il microfono influiva negativamente in questo aspetto. Energica, pulita, nessuna sbavatura, eppure è mancata una brillantezza delirante nei momenti culmine che avrebbero dato maggior vigore alla sua prova: se non è un dieci è un otto. Peccato alla fine non aver sentito gli scroscianti applausi di una sala piena. Nella sala erano presenti soltanto 16 persone (me compreso), e il battito delle mani di un pubblico tanto esiguo trasmette una vaga senzazione di freddezza. Peccato, ci voleva un po' di calore per sciogliere la tensione; forse anche per questo la ragazza piangeva.

Recensione a cura di Alessandro Giova
(visto al Teatro Lo Spazio il 2/12/2010)


PSICOSI DELLE 4.48
di Sarah Kane

regia di Walter Pagliaro
con Micaela Esdra
Associazione Culturale Gianni Santuccio

DAL 01 DICEMBRE AL 12 DICEMBRE presso il Teatro Lo Spazio,
Via Locri 42/44

Informazioni Tel.+39 06 77076486 +39 06 77204149 (15,30-19,30)
info@teatrolospazio.it

Psicosi delle 4.48 è l’ultimo testo di Sarah Kane che qui porta in scena la sua morte in un’ora che non è insolita, dato che secondo alcune statistiche, le 4.48 sembra l’ora più adatta ad assecondare il suicidio. Quali possono essere le cause di una simile scelta? Il rapporto disarmonico con i genitori, la sfiducia nella società, il sentirsi in colpa per tutte le guerre, ma soprattutto la mancanza di amore, la solitudine insopportabile, specie se ci si sente abbandonati da chi si ama. Psicosi è una confessione struggente, un atto di fede nei confronti del teatro che ci obbliga a guardarci dentro sempre senza alibi né ipocrisie.
- Walter Pagliaro -


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mercoledì 1 dicembre 2010

Antonio Rezza si fa in 5 al Teatro Vascello.



Quello che si terrà al Teatro Vascello di Roma dal 7 dicembre al 2 gennaio è un vero evento. A partire dal 7 dicembre, Antonio Rezza e Flavia Mastrella incontrano il pubblico romano con un'antologia delle loro rappresanzioni. Un mese, cinque spettacoli del duo irrequieto e disarmante ingoiati in raffiche tanto ravvicinate da non aver fiato per riprendersi. La mimica facciale di Rezza e le costruzioni di Flavia Mastrella si sono incontrate nel 1987 e da allora hanno dato vita ad una lunga collaborazione. Il Vascello ci propone un viaggio attraverso cinque tappe (in ordine cronologico) della strana coppia; un viaggio in un ambiente creato dal nulla, immaginario, all'interno del quale si muove e agita il corpo di Antonio Rezza. Ho sentito dire che Rezza è inquietante; decisamente lo è, ma è soprattutto un'esperienza teatrale inusuale che ha una propria morfologia in un panorama teatrale che stenta a rinnovarsi, trovando spesso difficoltà a trovare nuovi linguaggi, situazioni, azioni.


IL PROGRAMMA COMPLETO

PITECUS
7-8-9 dicembre

IO
10-11-12 dicembre

FOTOFINISH
dal 14 al 19 dicembre

BAHAMUT
21-22-23 e 26 dicembre

7-14-21-28
dal 28 dicembre al 2 gennaio (31 dicembre speciale capodanno)

con Antonio Rezza
e con Ivan Bellavista, Giorgio Gerardi
(mai) scritti da Antonio Rezza
negli Habitat di Flavia Mastrella
assistente alla creazione Massimo Camilli
disegno luci Maria Pastore
organizzazione Stefania Saltarelli
una produzione: RezzaMastrella; Teatro 91; Fondazione Teatro Piemonte Europa

Teatro Vascello
Via G. Carini 78, Roma Zona: Monteverde
Tel: 06-5881021 06-5898031
biglietti: intero 18,00 - ridotto 15,00
ridotto studenti e gruppi di almeno 10 persone 12,00 euro

Il Vascello offre uno speciale abbonamento per i 5 spettacoli al costo di complessivo di 50 euro. Gli abbonamenti vanno ritirati presso la biglietteria del Teatro entro il 9 dicembre.


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