14.23, da un secondo, il dito schiaccia il suo primo tasto. Vorrei, sentire il vento che mi scaraventa indietro, mentre canto ritto sul tetto di una macchina in corsa sulla Route 66. Il brivido del disequilibro, il deserto, il vento, la voce che lotta col l'aria violenta schiacciata nella bocca. Il volo, lo schianto, mille frammenti, il suono di una chitarra che non demorde. Vorrei, disperdermi come spuma negli oceani di un cielo liquido, navigare o rinchiudermi in uno smeraldo verde, discendere all'inferno, giocare a scacchi una partita di vita o morte. Dieci esistenze, vorrei; una per ogni cosa, per ogni follia, per ogni scelta, per i più grandi sbagli, per i più grandi romanzi, per sperimentare l'assenza di ritorno. Una per potermi suicidare e raccontare alle altre nove cosa sono quei pochi attimi tra noi e lo schianto. Una per poter uccidere ed assaporare il sangue altrui, per invecchiare in una cella umida e riluttante, in compagnia di topi. Dieci respiri, alla ricerca di un senso, dell'imprevedibile, della condanna, dell'ascesa, della felicità, del nero più nero che annega nel bello. Galleggiare, variopinte voluttà, instabilità vaganti e trampoli, alti, fino a dissolute galassie del tempo passato. Incontrare Dio, provando stupore e quasi felicità; rallegrarsi che in fondo ti eri sbagliato. Godersi il momento del divino, arrancare, ridere, follemente, cercando infine qualcosa che sia più grande ancora di Dio. E non c'è mai limite alla sete. Sete, d'eternità, di riempire il proprio involucro vuoto, svuotato, ogni volta, senza posa. Sete...
Le 14.33, ucciso, ancora una volta, dal tempo.
Matteo Di Stefano
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